giovedì, luglio 15, 2010

prova

prova prova

sabato, marzo 14, 2009

domenica, febbraio 22, 2009

Cannavò, per tutti maestro di giornalismo


Quando se ne va (e si spera su una nuvola più bella e leggera di questa terra) una persona come Candido Cannavò si rimane un po' storditi.
Perché Cannavò è stato un personaggio carismatico, fino all'ultimo giorno, fino all'ultima discesa in mensa assieme ai suoi ragazzi della Gazzetta. Direttore di un giornale comela Gazzetta dello Sport si rimane per sempre, anche da pensionato, anche sul letto di morte. Appunto.

E non è retorica. E' proprio così. Cannavò non giocava a fare la caricatura di se stesso. Io credo che fosse proprio così, come appariva e combatteva nei suoi articoli, nelle sue polemiche. Misurato, equilibrato, quandooccorreva ma anche deciso e duro, tagliente quando serviva.

on è mai stato il mio direttore. Non ho mai scritto una riga per la Gazzetta. Eppure, l'unico giorno in cui lo incontrai me lo ricordo bene. Stava dispensando consigli ai suoi ragazzi. Forse stava criticando un pezzo. Forse ammoniva l'autore, forse criticava la linea di un suo caposervizio. Forse, forse...

Sta di fatto che la sua bonarietà nella critica faceva emergere la pasta dell'uomo: ovvero la passione con la quale esercitava il mestiere. Quella "lezione" di giornalismo valeva anche per me che non ho mai avuto la fortuna di lavorare per il suo giornale. 

Ecco, c'è di buono in questo mestiere, che si può imparare soprattutto dai colleghi e dai maestri che stanno al di fuori del tuo giornale. E tu sei quello che sei perché magari hai rubato un pezzetto di mestiere da quello o da quello. Da Cannavò e da Montanelli, per esempio. Per questo motivo come sono andato in processione a rendere il mio omaggio davanti al corpo del direttore de Il Giornale, non mi dispiacerebbe aggregarmi agli intimi, ai colleghi e agli amici di Candidò per salutarlo un'ultima volta e rendergli omaggio.

Il lavoro di giornalista e questo ce lo ha insegnato Cannavò, non è come quello del bancario. Fare il giornalista è come lo faceva Cannavò. Vicino ai campioni, dolente con Pantani, intristito e angosciato per la brutta piega che aveva preso il ciclismo. Fare il giornalista, perlo più sportivo, richiede passione e tenacia, dedizione da prete, capacità di alzarsi in mezzo alla notte per rifare un pezzo. Voglia di mischiarsi alla canfora degli atleti, stare su un'ammiraglia oppure solo seguire per ore il collegamento televisivo ad una tappa del giro d'Italia.
Cannavò ha amato molto il ciclismo. Ha voluto molto bene a Pantani. Ha concluso la sua carriera professionale (bellissima, arrivava da Catania, aveva praticato atletica e aveva lasciato da parte i suoi studi di medicina, mi pare) scrivendo di "pretacci", occupandosi di progetti di solidarietà. E mi sembra una cosa bella e nobile che abbia fatto tutto questo.

Io spero che domani a Verdelli venga in mente di fare un giornale come se lo avesse partorito direttamente Cannavò,con tanta passione dentro, nelle colonne, sopra e sotto le righe. Nei titoli, nelle didascalie e con grandi immagini. E che ci mettesse anche le foto dei suoi amati ciclisti.

domenica, febbraio 08, 2009

FIRMA L'APPELLO PER ELUANA


Signor Presidente,


la tragica fine che si prospetta per Eluana Englaro non lascia indifferente la coscienza civile dell’Italia.

Eluana è portata a morte senza che sia stata accertata in maniera incontrovertibile la sua volontà, né l’irreversibilità del suo stato vegetativo.
Eluana rischia dunque di morire sulla base di una volontà solo presunta, e sarebbe l’unica persona a subire una tale sorte, poiché nessuna delle leggi sul fine-vita in discussione in Parlamento permetterà più questo obbrobrio.

Signor Presidente, Le chiediamo fermamente di non permettere questa tragedia, che sarebbe un insulto sanguinoso alla storia, alla cultura, all’identità stessa del nostro Paese, convinti come siamo che nessuno deve essere costretto a morire per un formalismo giuridico.

Le chiediamo un intervento perché – di concerto con il Governo – sia data una moratoria alla sospensione dell’alimentazione e idratazione cui è sottoposta Eluana, in attesa che il Parlamento – nelle cui fila si è già appalesata un’ampia maggioranza in sintonia con la maggioranza che vi è nel Paese – possa pronunciarsi su un’adeguata legge.

Siamo certi che Ella non rimarrà insensibile al nostro appello.

Primi firmatari:

Giancarlo Cesana
Francesco Cossiga
Maurizio Gasparri
Paola Binetti
Vittorio Feltri


E’ possibile aderire all’appello in questo modo:
- andando sul sito
www.appellonapolitano.enter.it

sabato, febbraio 07, 2009

Jannacci e Eluana: "Ci vorrebbe la carezza del Nazareno"



Ateo, forse che no. Di sinistra. Sicuro. Medico. Certamente. Cantautore. Assolutamente. Enzo Jannacci ci ha stupito, ma nemmeno poi tanto se torniamo alla memoria di tanti suoi successi. La Pietas, il guardare l'uomo che soffre, l'ultimo, il barbun, come in una delle sue canzoni più belle e nostalgiche: "El purtava i scarp del tennis". E tante altre ancora; ho visto un re. E' lo stesso Jannacci, di sempre. Non è impazzito. Il medico poeta che davanti all'immagine di una donna che ancora vive (anche se è iniziata da alcune ore la pratica eutanasica di toglierle acqua e alimentazione), non può che riconoscere che la vita, qualunque essa sia, è degna di essere vissuta sino in fondo. Lo dice un medico. E raffinato, nostalgico poeta.

Alcune canzoni di Jannacci sono tristi. Ma se la vita non fosse triste, sarebbe disperata. Come diceva Don Giussani.

Il Corriere della Sera ha pubblicato una splendida intervista al cantautore milanese sulla vicenda di Eluana Englaro. Eccola sotto.

Jannacci: allucinante fermare le cure «La vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio»

Ci vorrebbe una carezza del Nazareno» dice a un certo punto, e non è per niente una frase buttata lì, nella sua voce non c'è nemmeno un filo dell'ironia che da cinquant'anni rende inconfondibili le sue canzoni. Di fronte a Eluana e a chi è nelle sue condizioni — «persone vive solo in apparenza, ma vive » — Enzo Jannacci, «ateo laico molto imprudente», invoca il Cristo perché lui, come medico, si sente soltanto di alzare le braccia: «Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l'alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale».

È un discorso che vale anche nei confronti di chi ha trascorso diciassette anni in stato vegetativo? «Sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».

Ma una volta che il cervello non reagisce più, l'attesa non rischia di essere inutile?«Piano, piano... inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l'idea di non potergli più stare accanto».

Sono considerazioni di un genitore o di un medico? «Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L'esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque. Decidere di interromperla in un ospedale non è come fare una tracheotomia...».

Cosa si sentirebbe di dire a Beppino Englaro? «Bisogna stare molto vicini a questo padre».
Non pensa che ci possano essere delle situazioni in cui una persona abbia il diritto di anticipare la propria morte? «Sì, quando il paziente soffre terribilmente e la medicina non riesce più ad alleviare il dolore. Ma anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover "staccare una spina": sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».

Come affronterebbe un paziente infermo che non ritiene più dignitosa la sua esistenza? «Cercherei di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza: conosco decide di ragazzi meravigliosi che riescono a vivere, ad amare e a farsi amare anche se devono invecchiare su un letto o una carrozzina».

Quarant'anni fa la pensava allo stesso modo? «Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però».

Che cosa? «In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».

Fabio Cutri
6 febbraio 2009