lunedì, ottobre 29, 2007

Requiescat in pacem? Dalla parte di Marco Pantani


L’ultimo post di Quasi Rete, il blog della Gazzetta, parla della dolorosissima vicenda di Marco Pantani. E lo fa con un monito, assai sensato, che qui riassumo con queste parole che ho estrapolato: (…) Eppure, al di là delle buone intenzioni, che sta accadendo? Brunel ha fatto la sua inchiesta, dice che ci sono troppe lacune nelle indagini e che tante domande non hanno risposta. Neanche il tempo di far sapere che c’è il libro, ed ecco il caravanserraglio mediatico rimettersi in moto. Sì, proprio “parte di quel mondo che ha tolto la vita a Pantani” – per dirla con Brunel – adesso va dalla mamma di Pantani, dal medico dell’autopsia, dagli avvocati difensori di questo e di quella, dai giudici più o meno istruttori.

Tutto questo per dire, con la rabbia dovuta ad un eroe moderno che ci ha fatto sognare, che Marco Pantani va lasciato in pace”

Certo, Marco andrebbe lasciato in pace. Marco va lasciato in pace. Agli amici di Quasi Rete vorrei dire, fra l’altro, di sperare, nel mio piccolo, di non far parte di quel caravanserraglio mediatico che si mette in moto, incalzato da una notizia o da una semplice ipotesi. Insomma, meglio correre il rischio di scriverne e parlarne che liquidare Marco con un paio di righe, che finiscono in un minuscolo colonnino.

Con le dovute cautele, con le giuste cautele, lascerei che esistesse il diritto d’informazione. Meglio, la libertà di parlarne come è capitato a me sabato discutendo con il mio parrucchiere. Perché Pantani -mi pare - ha rappresentato uno spicchio importante sportivo e sociale del nostro Paese e perciò non va rimosso.

Riepiloghiamo. Un giornalista francese, Philippe Brunel dell’Equipe, ha scritto un libro ricco di particolari inediti che ha fatto tornare in qualche modo d'attualità il caso. Ma al di là della cronaca, non mancano taluni spunti che fanno parte di questa nostra Italia. Perché non parlarne?

Un esempio: non può lasciare indifferente l'atteggiamento di mamma Tonina. Lei ha sempre sostenuto che suo figlio è stato ucciso. Lei è convinta - da quanto leggiamo sui giornali - dell'assoluta buona fede di Marco, uno che dava fastidio anche all'ambiente del ciclismo, così si è espressa.

Ecco, colpisce molto. Personalmente mi ha colpito molto questo atteggiamento della mamma, per nulla scontato. Fiero e ribello allo stesso tempo. E, vorrei anche direi, monco di ragioni perché accecato dall'amore di madre.

Dall'altra parte ci sono i dubbi sollevati da un giornalista su come sono state condotte le indagini dopo la scomparsa del corridore e - in risposta - la fredda ma anche pragmatica e quindi efficiente risposta della burocrazia di un apparato - la procura - che forse ha trattato il morto come se fosse una persona come tutti, uno di noi.
Ecco, fosse accaduto a nostro cugino, probabilmente le cose sarebbero andate nello stesso modo. E non è che la cosa non mi dispiaccia. Non ci sono morti di serie A o B, vip o gente comune.
Non sappiamo nemmeno se queste persone si siano mai occupate di ciclismo in vita loro, se hanno mai applaudito, una volta e magari "sbaglio" alle imprese del Pirata. Questo non lo sappiamo ma non è importante.

Da quello che emerge dalla lettura dei giornali, la procura si è comportata seguendo una via diretta, che potremmo anche dire spiccia, non immaginando di avere davanti un Marco Pantani, piuttosto un signor Brambilla qualsiasi. Hanno già riferito che l'indagine non sarà aperta e che "l'indagine è stata condotta con scrupolo". Su certe stranezze sono arrivate le puntualizzazioni come quella del medico Giuseppe Fortuni che dice di aver rispettato tutte le norme eseguendo tutti gli esami chimici e macroscopici che poi avrebbe svolto nell'istituto di medicina legale di Bologna. Durante il viaggio sarebbe stato affiancato da alcune auto e solo dopo avrebbe saputo che si trattava di giornalisti. Quindi avrebbe deciso di portare i reperti non all'istituto, dove di notte non c'era sorveglianza, ma in una cantina che si trova sotto il suo studio collegato alla sua abitazione. Poche ore dopo, appena si è fatto giorno, avrebbe portato i reperti all'istituto. "Con questa storia del cuore nel frigorifero di casa - ha dichiarato a Repubblica - credo si stia facendo una tempesta in un bicchier d'acqua". Tutta l'inchiesta parte da un dato inconfutabile: Pantani è morto a causa dell'assunzione di cocaina. L'autopsia l'ha confermato.


Gli inquirenti, partendo da questo, hanno ritenuto inutile rilevare le impronte digitali - "in un albergo sono sempre tantissime". Le lesioni trovate sul corpo di Pantani erano undici, nove delle quali superficiali. Due solo di un certo rilievo, non frutto di difesa passiva o attiva, secondo gli inquirenti. Quindi provocate dal fatto che la stanza è stata messa a soqquadro e perciò gli inquirenti sposano la tesi che sia stato lo stesso Pantani a mettere in disordine la camera.

Rimangono però alcune delle perplessità sollevate dal giornalista dell'Equipe, forse però insufficienti per far riaprire l'indagine; per esempio che non si sa ancora bene che cosa accadde in quelle dieci ore nella stanza di Pantani, che "ci fu il tentativo immediato di dipingere l'ex corridore come un personaggio ormai delirante, fuori di sé, mentre tutte le testimonianze del processo in corso smentiscono completamente questo quadro" Inoltre, sempre a Repubblica Brunel ha detto:" Già nel giugno scorso la madre di Pantani, in una intervista, mi disse di aver incontrato il proprietario del residence, De Luigi. E che questi gli avrebbe confessato che non fu Pantani a distruggere la sua stanza. Forse andrebbe interpellato". Da ciò che emerge fino ad oggi, qualche ombra c'è ancora, comunque. Varrebbe la pena chiarire per il bene di tutti. Compresa per il bene di Marco, per la sua memoria.

Postilla: Giulio Ferroni, docente di letteratura all’Università La Sapienza Roma, dedicò un giorno un cameo a Marco Pantani, pubblicato sul settimanale Diario – ora non più in edicola - e raccolto anche in un volume dal titolo “Dizionarietto di Robic, centouno parole per l’altro millennio”.


“A noi ciclisti Pantani ha dato l’illusione (forse effimera, forse mitologica) che entro l’apparato sempre più ultratecnologico, ultramercantile, ultrapubblicitario, postmoderno e multimediale, dello sport ufficiale chiamato ciclismo, possano persistere e balzare in evidenza residui di un antico ciclismo corposo e terragno, legato ad una provincia italiana solida ed ostinata, a quella che taluni chiamarono l’umile Italia, insomma l’Italia di Bartali e di tutto Coppi…”
A Ferroni mancava di commentare anche questi ulteriori passi della vicenda umana e sportiva di Pantani. Ma, forse, non sarebbe andato oltre a ciò che ha scritto nel suo “Dizionarietto”, come se le sue parole avessero già una sua natura profetica.


(A.d.L)

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